Zoom sulla crisi nel calcio. Mancano gli esempi da seguire: dove porta l’emulazione dei professionisti?

Zoom sulla crisi nel calcio. Mancano gli esempi da seguire: dove porta l’emulazione dei professionisti?

by 17 Febbraio 2014

C’era un tempo in cui il calcio italiano era il migliore al mondo. Nel Belpaese, dicevano, si giocava il campionato più difficile, tanto meticolosa era la preparazione di tutti i partecipanti, tanto grande era la sincera incertezza che vi regnava. Erano anni aurei: l’Italia nel pallone brillava, eccelleva, stupiva. Di più: emozionava. Ci riusciva sempre, basta correre indietro col pensiero. I suoi figliocci, erano i migliori. Ovunque. Dagli allenatori ai preparatori specifici, dall’insegnamento della tattica alla trasmissione dei concetti di gioco, per finire con le basi tecniche e l’addestramento alla vita attraverso lo sport. L’intero movimento calcistico raccoglieva consensi in ogni dove, spostando masse rumorose ma composte, mosse da una passione dirompente, alimentata ogni giorno dalle gesta di tanti cultori che, a conoscerli bene, avevano un che di romantico.

Le loro storie profumavano di verità, anche nelle leggerezze. Erano dirimpettai sinceri, umani, creature epiche e fallaci allo stesso modo, considerate come tali. La loro immagine non superava di un centimetro la dimensione di sportivi cui appartenevano. Prima piaceva l’uomo, poi il calciatore. Per carità, non sempre. Ci sono casi eclatanti di eroi in campo e disastri nella vita di tutti i giorni che non serve nemmeno citare. Chi mastica calcio sa a chi facciamo riferimento. Il calcio degli idoli, però, sapeva incantare ed educare, stupire e insegnare. Un messaggio positivo usciva sempre, anche in momenti bui.

La fatica, quella vera, fatta di ore e ore sul campo, di rinunce e sacrifici, anche di imprecazioni e maledizioni della sorte, perchè no, si leggeva sui loro volti. Il calcio vero è fatto anche di quelle. Ma non solo: c’era lo spazio per assistere a gioie metafisiche, gioie sincere, liberatorie, incastonate in migliaia di immagini e di ricordi. Quel calcio era un romanzo popolare letto e apprezzato da tutti. Non annoiava mai, perchè ognuno poteva riconoscersi tra le sue righe. Oggi, quel riconoscimento, quel vedere il proprio sè che tocca e si avvicina alle vicende del campione, non c’è più. Il nostro romanzo popolare preferito, vien da dire, ha perso proprio il suo lato più poetico: la sua componente umana e romantica. La vicinanza, fisica e morale, ma anche emotiva, non c’è più. I calciatori di oggi vivono in dimensioni parallele, aumentate a dismisura, quasi fossero dei semidei calati dal cielo, cultori di una vita altra, distante dalla nostra. Sono esseri figli dell’intermundia, per dirla con la filosofia (era, secondo i filosofi greci, la casa degli dèi del Pantheon).

Esagerati in tutto e per tutto, euforici nelle vittorie e tragici nelle sconfitte. Privi di umanità, di vicinanza coi tifosi, con la gente comune. Avvicinare un calciatore, oggi, è un’impresa impossibile. La colpa però non è solo loro. Una precisazione va fatta: l’esagerazione prende in causa anche e soprattutto gli spettatori. C’è troppa foga, troppo interesse ingiustificato. Si vuole sapere tutto, ma proprio tutto, sul conto di questo o quel giocatore. Si respira un clima di invadenza che non è accettabile. Pur nella loro dimensione di semidei, cui li abbiamo proiettati noi stessi, i calciatori sono e restano esseri umani: vanno lasciati vivere. Una reazione d’isolamento è più che comprensibile. Alcuni di loro, catapultati nelle grandi città, confessano di sognare una vita normale, tranquilla. Desiderano di poter fare ciò che vogliono con naturalezza, come bere un caffè al bar senza che sui giornali escano chissà quali notizie. E’ paradossale: come si può negarlo?

Un contesto del genere ha rovinato il gioco più bello del mondo, creando tifosi e spettatori iperpressanti e giocatori afasici, privi di libertà di pensiero, costretti ad una triste omologazione in ogni uscita pubblica. Ogni intervista, ormai, è un copione già scritto. Le colpe sono di tutti: di noi giornalisti in primis, ma anche di tifosi e giocatori, mai in grado di rientrare in una dimensione di buonsenso. Ce n’è sempre meno. Basta pensare alla baby-curva voluta dalla Juventus: ragazzini delle medie capaci di trasformare dal loro piccolo un settore nato per essere pacifico in una bolgia, fucina di insulti e imbarazzanti improperi verbali. Basta pensare a cosa si vede sul terreno di gioco: un vero e proprio teatro del sotterfugio, dove un fine (il risultato), giustifica ogni mezzo. Machiavelli sarebbe contento: chi ama il calcio, un po’ meno.

Qual è il messaggio che passa? Di positivo, c’è ben poco. Anzi, siamo sinceri: praticamente nulla. Ai destinatari arriva in pasto un concetto disarmante: i calciatori, un tempo possibili esempi da seguire, altro non sono che finti eroi costretti a mascherarsi per convenienza, impossibili da avvicinare e inopportuni in ogni uscita, oggetto di chiacchiere infinite e di colossali costruzioni (o distruzioni, a seconda dell’andazzo) mediatiche. Se è questo il calcio che ci piace, c’è da preoccuparsi.

L’emulazione, che non è mai negativa, se figlia di solidi riferimenti, dove porta? Alla deriva valoriale: non c’è altra spiegazione. Non c’è un briciolo di positività nel piatto. Nessuno ci vuol sputar sopra: sia chiaro. Magari, però, al cameriere potremmo chiedere di portarne un altro. Più sincero, più genuino, più vero.

Finchè non arriva, provate a cambiare abitudini. Provate a scoprire l’universo dei dilettanti. Non è tutto oro quello che luccica: lo sappiamo e lo sapete benissimo. Qualche pepita, però, in mezzo a tanto bagliore, c’è. Andatevela a scoprire: se il calcio vi dà emozioni, non ve ne pentirete.