Siamo un popolo di allenatori. E’ una malattia che va curata, se non vogliamo che tutto finisca

Siamo un popolo di allenatori. E’ una malattia che va curata, se non vogliamo che tutto finisca

by 22 Marzo 2013

Siamo un popolo di allenatori. Uno sciame di politici, professori, luminari. Una massa di economisti, opinionisti, guru con la soluzione pronta. Lo si legge negli occhi degli interlocutori, lo si capisce dalle discussioni, lo si interpreta dagli atteggiamenti. Tutti hanno qualcosa da dire. Tutti sanno, tutti possiedono la verità, l’assoluto, l’archè. Già così è inaccettabile. Invece c’è di peggio: c’è la presunzione, l’arroganza, l’incoscienza di ritenersi migliori. C’è l’abuso dei se e dei ma, dei congiuntivi, dei condizionali. Imperversa la storpiatura della grammatica italiana, tra ricette, luoghi comuni, soluzioni fantasmagoriche. Succede nelle piazze, nelle case, nei bar, nelle scuole, nelle aziende, negli ospedali. Capita ovunque alloggi la società civile.

Purtroppo anche per i campi di calcio: ed è su questi, che noi concentriamo la nostra attenzione. Niente analisi sociologiche, nessun utilizzo di massime inopportune, di metafore stantie. L’unico intento è fare chiarezza sulla realtà dei fatti. Una realtà che riluce su uno specchio sporco, rigato, crepato. Ma che non si rompe, e rimanda a ricordi, a sensazioni che non potranno mai morire, pur in mezzo a mille vergogne.

Il punto è il seguente: manca la cultura del rispetto dei ruoli. Se ne vedono di tutti i colori: presidenti che fanno gli allenatori, allenatori che, a loro detta, avrebbero la ricetta per tutto, calciatori onniscienti. Ognuno guarda l’erba del giardino del vicino, e vorrebbe, anzi pretende, che sia tosata come la sua. Tutto ciò apre un gigantesco portone a scenari grotteschi, al limite del tragicomico. Incomprensioni che diventano insulti, insulti che diventano minacce, minacce che diventano esclusioni. Urla iraconde piovono dalla tribuna, schiamazzi rimbombano dalle panchine, improperi volano dai campi di gioco. Per fortuna non è così dappertutto, anzi, non operiamo nessuna generalizzazione. Abbondano anche frequenti casi in cui il buonsenso si vede ad occhio nudo, e accorgersene è un piacere sublime. Ma la malattia della presunzione di onniscienza, chiamiamola così, si sta diffondendo a macchia d’olio.

I problemi ci sono: ma le colpe, sempre più spesso, sono attribuibili a molti tra gli addetti ai lavori. Di esempi se ne possono fare mille: presidenti che dirigono con criteri impressionisti, figli di una vaghezza che sa tanto di sotterfugio. Allenatori che operano scelte incongruenti, a partire dalla settimana per finire alla domenica. Giocatori ingestibili, o incapaci di gestirsi. E, ironia della sorte, l’intero malcostume sfocia in uno sport.. molto, ma molto italiano: il salto sul carro del vincitore. Finchè tutto va bene, non esiste nessun problema, nemmeno il più evidente. Alla prima virgola sbagliata, si scatena il finimondo. E la colpa, guarda caso, è sempre altrui. La domanda è: perchè? Dove nasce una simile deriva? Chiedetevelo, ponetevi il quesito, voi che leggete. Noi vi lasciamo campo libero, e ci comporteremo così: in questo pezzo, l’arringa. Nel prossimo, proveremo a dare una risposta, forse qualche esempio da seguire, magari un messaggio da condividere. Insieme, nella speranza che qualcosa cambi: a Roma, come nel nostro calcio, che non può permettersi di soffocare nell’incertezza, come sta facendo l’attuale classe politica.