Se i filosofi fossero membri delle società di calcio, quale sarebbe il risultato?

Se i filosofi fossero membri delle società di calcio, quale sarebbe il risultato?

by 27 Marzo 2013

Usciamo dalla routine. Una volta ogni tanto fa bene, l’attività stimola l’estro, la curiosità, la simpatia. Non si può sempre parlare di numeri, classifiche, statistiche, pronostici. Evadiamo dalla nostra epopea del quotidiano. Stavolta l’argomento è stucchevole: partiamo sempre dalla filosofia. Il quesito è il seguente: se i filosofi fossero dirigenti di squadre di pallone, quale sarebbe stato il risultato? Quali interpretazioni, quali massime avrebbero diffuso, attraverso la sapienza popolare? Si potrebbe scrivere un libro, non c’è dubbio. Ogni autore, ogni scuola di pensiero potrebbe dare una personalissima visione del gioco del calcio. Noi però, ci soffermiamo su alcuni particolari, sul contorno, sugli elementi più curiosi, più simpatici, più inclini all’ironia. Niente schemi, tattiche, sproloqui dirigenziali. Per una volta il calcio giocato se ne va in soffitta: pronti?

Partiamo in quarta. Associamo l’evento più epico del dilettantismo con il personaggio più letterario: cena e cuoco. Il cuoco non può essere che lui, Epicuro. Con la barba fluente, il mestolo che rotea nell’aria, la mente che viaggia nell’ignoto, mentre il pentolone ribolle di sapori metafisici. Cultore dell’edonismo gastronomico, rinfranca l’animo altrui con geniale dimestichezza, deliziando palati.. e spiriti bollenti. “Mangia, che ti passa!” par sussurrare al portiere distratto. “Prendete e bevetene tutti!” urla gioioso dopo una tonante vittoria. Peccato che sia nato con qualche millennio d’anticipo, altrimenti chissà che massime, chissà che confronti avrebbe fatto Epicuro, appollaiato dietro un forno che emana emozioni e tentazioni.

Dalle esperienze gaudiose, passiamo all’altro polo: le sofferenze silenziose. Una su tutte spicca nettamente: il patimento del guardialinee delle Seconde e Terze categorie. Caldo e freddo, afa e vento. Vittorie e sconfitte, gioie sublimi e sopportazioni faticose. Il guardialinee è il proselita dello stoicismo nel terzo millennio. Soffre in silenzio, assorto nei suoi pensieri. Spesso ha un volto rubicondo, con l’espressione che ispira simpatia e compassione. A volte fumacchia di nascosto, tentando di lenire ansie e tormenti in quei fugaci contatti con la sigaretta. Il triplice fischio, ogni volta, gli ricorda la conflagrazione universale: “Anche stavolta è tutto finito” pensa, ghignando di nascosto. Poveri loro, ma arriverà un giorno in cui la beatitudine li raggiungerà.

Accanto ai guardialinee, sospirano i loro fratelli acquisiti: i dirigenti accompagnatori, figure degne del miglior èpos calcistico. Sono uomini di compagnia, spesso bonaccioni, con la battuta pronta, il sorriso genuino. Vedono il mondo con altri occhi: il loro è sempre più ovattato, più semplice, più mansueto. Vivono nelle loro rappresentazioni, che raccontano ai panchinari, per tenerli di buon umore. Sono gli Schopenhauer della panchina. Degli Schopenhauer atipici, però: nel loro “mondo come volontà di rappresentazione”, non c’è spazio per il pessimismo, i pensieri cattivi, le critiche fuori luogo. Il buon Arthur in loro vive la sua seconda vita, e si accorge che anche la panchina, grazie a lui, merita la sua parte di poesia.

Vicino di posto, amico degli accompagnatori, c’è il mitico, inarrivabile, inestimabile massaggiatore. Il suo motto è “Ora et labora (e spera…)”. Prega, lavora, spera che dalle sue mani sante il miracolo si realizzi. E spesso accade: sciami di Lazzaro con le scarpe chiodate s’alzano dai lettini, immacolati, nella gioia e nello stupore generale. I massaggiatori non sono filosofi: sono i pronipoti di San Francesco d’Assisi. Nell’epoca della tecnologia, loro sposano ancora la dea Povertà. Lavorano a mani nude, impugnando vagonate di muscoli speranzosi nelle proprietà curative di quelle tenaglie con cinque dita. Funziona così, miracoli su miracoli, alla faccia della fisioterapia.

C’è poi la dirigenza. Considereremo quella più semplice, più pura, più pratica. Niente arzigogolii: la vera dirigenza è quella fatta di presidente e direttore sportivo. Questi ultimi, i fantomatici diesse, secondo le moderne definizioni, sono i Gadamer delle tribune, gli ermeneuti del bordo campo. La loro parola d’ordine è: interpretazione. Loro analizzano, sviscerano, discettano. Rovistano almanacchi, consultano numeri, confrontano pareri. Il loro calcio, è un concetto ermeneutico, dove tutto deve avere un perchè. Ed è un problema, di questi tempi, in cui tanto, troppo, sembra non conoscere spiegazioni. Ma loro non demordono, e continuano imperterriti nella loro opera, come pazienti amanuensi.

Concludiamo con la figura più importante, più maestosa: il presidente. Il presidente non può che essere Platone. Lui è il demiurgo, colui che crea, ordina, dirime le vicende del suo mondo. La sua squadra è un’idea pura, perfetta. A volte però, la realtà non corrisponde al suo pensiero, e sono dolori per tutti. Non per niente Karl Popper, che aveva lasciato il calcio per insanabili contrasti con i presidenti, si scagliò contro di loro, definendo il platonismo come un sinonimo di regime totalitario.

L’avessero inventato prima, il gioco del calcio…