Montagnoli, l’infinito romanzo del “Puma”

Montagnoli, l’infinito romanzo del “Puma”

by 6 Settembre 2013

Il romanzo del “Puma” continua. Infinito, quasi senza confini, figlio delle vicende di uno degli allenatori che hanno fatto la storia del calcio a Verona e non solo. Dici Montagnoli e vedi l’Allenatore. Quello con la “A” maiuscola, cubitale. Non uno qualsiasi. Perchè Montagnoli mastica e insegna calcio da più di venticinque anni. Davanti ai suoi occhi sono trascorse generazioni di giocatori, è cambiato il calcio, sono cambiate le regole, i ritmi, le dinamiche del gioco più bello del mondo.

Nessuno meglio di lui può interpretare i vizi e le virtù del nostro mondo, di cui è cultore attento e appassionato. Amante del lavoro, sempre cordiale e mai con una parola di troppo, Marco Montagnoli non lascia, ma raddoppia. Quest’anno anche sua maestà Eccellenza s’inchinerà a lui. L’Ambrosiana gli ha aperto le porte: sarà lui il timoniere dei diavoli della Valpolicella, freschi di ritorno nel massimo campionato dilettantistico. Una certezza assoluta: il diesse Bergamaschi non ha avuto dubbi nell’atto della scelta. Lui, che a sedici anni fu lanciato nel calcio proprio da Montagnoli.

Un decano, un totem con la tuta e le bullonate, il pensiero veloce, la battuta pronta. Una spanna sopra tutti.

Mister, riavvolgiamo il nastro. Dico inizio della carriera d’allenatore, e vedi…

“Vedo l’anno ’88/’89, ero all’Olimpia Domiro. Lì finii la mia carriera di calciatore e iniziai quella d’allenatore. Era una società particolare, al tempo avevamo una squadra giovanissima. Fu un inizio davvero emozionante, anche perchè da lì erano partiti giocatori importanti, come Malesani e Whisky Purgato”.

L’annata più intensa?

“Emotivamente, e sotto l’aspetto della responsabilità, quella a Legnago in Eccellenza nel ’93/’94. Presidente c’era l’avvocato Salvatore, una persona squisita, che non lasciava nulla di intentato. Per la prima volta avvertivo, anche da allenatore, le tensioni di una piazza che era praticamente sul livello di una squadra professionistica. Ci ripescarono in Interreggionale, disputammo un gran campionato. Personalmente fu una grande soddisfazione”.

Quelle da ricordare? I motivi li scelga lei, non facciamo differenze.

“Tante. Ricordo con piacere il biennio a San Massimo in Eccellenza in cui arrivammo terzi. Erano i tempi di Ciccio Sauro, un grande giocatore. Giocammo contro delle autentiche corazzate, ma alla fine riuscimmo sempre a spuntarla. Quei terzi posti mi sono rimasti dentro: nessuno se li aspettava. Poi dico il biennio a Lugagnano nel 2000, oscurati solo da una semifinale di Coppa Italia persa a Ponzano non so ancora per quale motivo, il triennio alla Montebaldina del presidente Zanetti, la salvezza incredibile col Caldiero nel 2008-2009, e le ultime salvezze con Alba e Arbizzano: due grandi risultati in rimonta”.

Il giocatore più forte che ha allenato?

“Davide Soardo e Riccardo Castagna dell’Olimpia Domiro. Ma anche Meda, Bendinelli, lo stesso Bergamaschi, che ora è il mio diesse. Poi dico Stefano Sauro e Bernardo, una gran punta che ho avuto alla Montebaldina”.

Il ricordo più bello di 26 anni di panchine?

“Ad Adria, nel 1995. Tornavo quindici anni dopo aver concluso la mia esperienza da loro come calciatore. A sorpresa, prima della partita, fui premiato e osannato dal Calcio Club Adria per quello che ero riuscito a dare in campo con la loro maglia. Fu una sorpresa graditissima”.

Il presidente con cui si è trovato meglio?

“Devo dire di aver avuto la fortuna di lavorare sempre con persone all’altezza e in società organizzatissime. Se devo fare dei nomi, dico Dalla Rosa del Lugagnano, Zanetti della Montebaldina, Berti e Targon del Caldiero e Salvatore del Legnago di una volta”.

Cosa c’è del Montagnoli giocatore, ancora oggi, nel Montagnoli allenatore?

“La tempra, la grinta. Quella che avevo una volta è la stessa di oggi. Io non mollo mai”.

Il calcio è cambiato. Dove in particolare, a suo avviso?

“Nei metodi di lavoro, nella velocità e in un concetto in particolare: una volta se avevi il giocatore forte, era il collettivo che si metteva a sua disposizione. Oggi è l’esatto contrario”.

Favorevole o contrario alla norma dei giovani?

“Favorevolissimo. Impone alle società di curare i settori giovanili, mi piange il cuore quando vedo grosse squadre dei maggiori campionati pescare i giovani dalle società professionistiche, vuol dire che alla base hanno lavorato male. E’ una politica sbagliata. So che si dice che certi giovani sono inadatti alla categoria. Ma è un biennio in cui si mettono alla prova: è la loro occasione per crescere. Bisogna coltivarli, altrimenti non si arriva da nessuna parte. E l’obbligo, che piaccia o no, è una via per dar loro lo spazio necessario. Poi sta a loro guadagnarsi sul campo la fiducia”.

Rimaniamo in tema: il giovane che hai lanciato?

“Theodoro Kakou ai tempi del Lugagnano. Sono andato a vedere una sua partita quando giocava negli Allievi del Lugagnano. Mi impressionò: chiesi subito al presidente Dalla Rosa di aggregarlo alla prima squadra. Lui inizialmente fu titubante, ma accettò. Kakou si allenò con noi, giocò, facendo la differenza, nella Juniores, finchè ho deciso di farlo esordire. Fu una grande soddisfazione per me vederlo crescere. Poi infatti andò all’Hellas Verona. Oggi gioca nel Caldiero in Promozione, sono sicuro che farà benissimo”.

Concludiamo, mister. Ci lasci con un messaggio ai giovani.

“Abbiate stimoli. Trovateli, in qualche modo, ma trovateli. So che è difficile, con tutte le distrazioni che ci sono adesso. Ma il calcio è ancora lo sport più bello del mondo. Se decidete di praticarlo, metteteci voglia, è l’unica cosa che conta. E imparate ad ascoltare, ad ogni livello: nessuno può permettersi di sentirsi arrivato. Chi sa ascoltare, impara a vivere bene, dentro e fuori dal campo. Questo è il mio messaggio”.