Michele e Gabriele Ferrari si raccontano: “Il momento più intenso? Ad Avesa: durò dieci anni, indimenticabili “

Michele e Gabriele Ferrari si raccontano: “Il momento più intenso? Ad Avesa: durò dieci anni, indimenticabili “

by 4 Novembre 2013

Non c’è vicenda, aneddoto o racconto che a casa Ferrari non tocchi, anche solo di striscio, il ricordo di una vita spesa per i campi di calcio. Il pallone è stato il simbolo, il trastullo, il filo conduttore della loro esistenza. In tutto e per tutto, senza mezzi termini. E’ stato significante e significato insieme. E’ stato prosa e poesia, romanzo e novella. Riunite, accomunate, affratellate da quell’oggetto che rotola.

Il tuffo nella memoria di un tempo che fu per loro è un piacere quasi sublime, tanti sono i ricordi, i dieci, cento, mille episodi da riportare in superficie. I loro occhi brillano di gioia mista a commozione. Un bagliore intenso, intensissimo, perchè quel pallone che gira per i corridoi della loro casa, in zona Stadio, è il simbolo dell’amore di Franco e Lucia, i genitori, l’ex campione mancato e la “presidentessa”. E’ la metafora, mai banale, della crescita e dell’educazione dei due figli, Gabriele e Michele, per non dire delle radici di una famiglia intera. Senza nessun escluso. Ovunque corra il pensiero c’è un pallone che rimbalza, la borsa da fare e disfare, l’odore del campo, il profumo del sacrificio. C’è il silenzio pregara, ci sono i sorrisi dopo le vittorie e i battibecchi dopo le sconfitte, i rimproveri, i timori, le paure, le ambizioni, le intuizioni, le consuetudini mai noiose di chi ha scelto di amare uno sport e di eleggerlo come passione preponderante di una vita intera.

“Tutta la nostra vita è legata al pallone – sospira Lucia Modenini, moglie di Franco e madre dei due fratelli Gabriele e Michele – quando eravamo giovani io seguivo Franco ovunque, avrò perso si e no tre partite, a parte un anno che era a Porto San Giorgio. Ricordo quella volte che il Pescara gli offerse un contratto in bianco: poteva mettere la cifra che voleva. Quel giorno piansi, a dirotto. Franco ci pensò, ma non andò. Scelse di intraprendere un’altra vita. Con me”.

Prima la famiglia, poi il lavoro, infine il calcio. Franco Ferrari scelse la concretezza di un amore e di una vita da costruire a Verona. La sua Verona. Continuò nei dilettanti, poi svestì i panni del regista e indossò quelli dell’allenatore. Col fischietto legato al collo Franco Ferrari si distinse in tutta la provincia.

“Ho allenato tutte le categorie, dai più giovani ai più vecchi, femmine comprese, vincendo campionati, cogliendo risultati insperati, lanciando giovani e coltivando una miriade di rapporti che ancora oggi conservo”.

Poi venne la volta dei figli, Michele, il più grande, e Gabriele. Calciatori anche loro, ancora in attività anche se ormai oltre la soglia dei quaranta.

“Non potevamo non giocare a calcio – sorride Gabriele – a casa nostra esisteva il pallone, punto e basta. E anche al tempo era l’unico divertimento possibile, era nel destino. Cominciammo a due passi da casa, alla San Marco Borgo Milano. Lì tirammo i primi calci al pallone. Su quel campo è iniziata la nostra storia nel calcio, che ancora oggi non è conclusa”.

“Il ricordo più bello che ho della mia storia nel calcio sono i dieci anni trascorsi assieme a mio fratello Gabriele ad Avesa – commenta Michele – lì i fratelli Ferrari ebbero un ruolo ed un peso importante, in campo e fuori. Eravamo i riferimenti di tutti i giocatori, con noi abbiamo visto crescere tutti quei giovani che hanno esordito con la maglia dell’Avesa e l’hanno portata in alto, fino dov’è ora”.

“Dieci anni veramente belli – gli fa eco Gabriele – ad Avesa siamo stati le chiocce, se così si può dire, di tanti giovani che sono approdati in prima squadra. C’era un grande ambiente, dove tutti si impegnavano e si divertivano. Il vero calcio per noi c’è stato in quei dieci anni”.

Due fratelli amici, i Ferrari. Legati da un rapporto sincero, dentro e fuori dal campo.

“A dire il vero – sorride Gabriele – quand’eravamo più giovani ci rispettavamo ma non eravamo legatissimi. Lui aveva i suoi amici, io i miei. Le nostre erano due vite diverse, quattro anni di differenza si sentivano. Poi la storia è cambiata con l’arrivo ad Avesa. Come dicevamo, quei dieci anni sono stati i più belli della nostra carriera, e non solo calcisticamente parlando”.

Ancora oggi, lo ripetiamo, la storia non è finita. C’è lo spazio per altri capitoli da raccontare. Gabriele è il presidente del Ponte Crencano, squadra con cui qualche volta scende pure in campo. Michele gioca in Friuli, nel Ciconicco.

“C’è ancora voglia di giocare – commenta Gabriele – io ancora mi alleno con il Ponte Crencano, resisto! E Michele uguale, lui addirittura gioca con continuità, segno che per noi il pallone è una passione infinita”.

“Era destino – conclude Michele – nostro padre non ha raggiunto il grande calcio per una scelta di vita. Noi, per riparare, giochiamo tutti e due ancora adesso, a 46 anni, io, e 42, Gabriele. Giusto così!!”.

Riccardo Perandini