Maradona e il calciatore dilettante. Riflessione sul concetto di eredità

Maradona e il calciatore dilettante. Riflessione sul concetto di eredità

by 29 Novembre 2020

Un intrigo, il verbo ‘ereditare’. Ancor più fitto, complesso, se la riflessione verte su quale potrebbe essere, a due giorni dalla morte di Diego Armando Maradona, il senso di un nesso che colleghi il lascito del campione argentino a quella vasta, indefinita platea di amatori che col sorriso portano l’etichetta di dilettanti.

In prima istanza va chiarita l’impossibilità di affrontare l’argomento con l’ambizione di fornirne una lettura esaustiva. Intento che, vien da dire, mal si sposa con le plurime, diremmo pure infinite, letture a cui l’esercizio si presta. Ne consegue, come effetto, un’unica possibilità: prendere posizione, assumersi la responsabilità della parzialità di quanto espresso, corroborarla con tesi quanto meno ragionevoli.

Ciò premesso, è utile passare subito al dunque. La tesi è questa: Maradona, parliamo qui del calciatore, in quanto chi scrive non ha titolo per sentenziare sull’uomo, lascia in eredità un personalissimo bisogno di confrontarsi con il concetto di limite. Analisi troppo semplice, si può dire. Obiezione vera in parte: il modo con cui Diego giocava, unico perchè figlio di un singolarissimo rapporto con le leggi del calcio e della fisica, è, con buona approssimazione, il bagaglio primario di ogni bimbo e di ogni dilettante.

Ragioniamo: cos’è del calcio che resiste ai suoi mutamenti? La capacità di regalare il contatto con l’inatteso, l’improvviso, l’inspiegabile. Ditecelo voi: sarebbe calcio se tutto fosse controllabile, prevedibile, calcolabile? L’attrazione nasce spesso da ciò che non è logico, ordinato, matematico. Come le giocate di Diego, le sue punizioni, i dribbling infiniti, tra avversari e i ciuffi del campo. La tecnica di Diego era il ponte tra l’ignoto, tra la categoria del possibile e il bisogno di consapevolezza, di controllo, di padronanza. Quel che ricerca ogni bambino per imparare, come può, l’arte del gioco. Come continua a cercare l’ampia fetta di dilettanti adulti, chiamati a tener vivo un vecchio amore anche in tempi in cui la vita, spesso, obbliga ad accantonare i moti dello spirito.

Scriveva il filosofo Luigi Pareyson che esistono due tipi di pensiero: uno ‘espressivo’, che nasce e muore nel suo contesto, uno ‘rivelativo’, che nasce in un contesto ma non ne ha bisogno per continuare ad avere valore. Travalica i ruoli, lo spazio ed il tempo, attraversa il divenire delle vite, della logica, delle culture. Il calcio di Maradona è, forse, stato soprattutto questo: una scintilla, il bisogno di sentirsi parte del proprio mondo, di palesarsi per come si è, di mostrare un’identità, esercizio oggi faticosissimo.

Maradona lascia una voce interiore che invita a riprovare, a cercare il limite per comprenderlo, sfidarlo, rispettarlo, talvolta farsene beffe. Il dilettante lo sa bene: che il protagonista si chiami Diego Armando Maradona o con qualsiasi altro nome, forse poco importa. Sono le gesta ed il loro significato che, più delle persone, attraversano il tempo. Resta questo messaggio: per giocare con sentimento serve un rapporto vero, non mediato da altri mezzi o scopi, con l’attrezzo, l’ambiente, il desiderio di esserci. Finchè i limiti, che si spostano ma non spariscono, consigliano di sfidarli su campi differenti tra quelli verdissimi, o interrati, sui quali per anni si versa gioioso sudore.