Il rapporto con gli arbitri. Serena convivenza possibile?

Il rapporto con gli arbitri. Serena convivenza possibile?

by 5 Novembre 2015

Ogni anno la solita, consueta, trita e ritrita questione. Il rapporto con gli arbitri è argomento di discussione vivissimo, più per le difficoltà che comporta che per effettivi miglioramenti, sempre auspicati, ma di cui poco, purtroppo, si sente parlare. E, probabilmente, non è un caso.

Ma ragioniamo: non è scientifico che se la coppia non funziona la colpa sia di entrambi, non è assolutamente vero. Ma quella tra calciatori e arbitri si tratta di una coppia particolare, figlia di un amore mai sbocciato, proprio perchè, in barba ai proverbi, è troppo ‘litigarello’.

Se non è amore, almeno l’armistizio: la speranza è questa. Ad oggi, però, siamo lontani. Va fatta una puntualizzazione. Non ce ne voglia la classe arbitrale, ma una tiratina d’orecchi viene quasi spontanea, specie per chi, imparziale, la vede da fuori come noi. Punto primo: l’arbitro è il garante della regolarità del gioco del calcio. Ergo: dev’essere preparato. Come un avvocato studia anni di giurisprudenza per esercitare la professione, così l’arbitro deve possedere saldamente le norme del regolamento. Sono la grammatica del calcio: chi non la conosce a dovere, non ha voce in capitolo.

L’impressione che sorge non è, magari, quella di una scarsa conoscenza, piuttosto di una applicazione non proprio lapalissiana della norma. Vero che esiste la legge e l’interpretazione della legge, però c’è modo e modo. Talvolta, per non dire spesso, si assiste a decisioni metafisiche, prive di senso alcuno. Ci sono norme disapplicate completamente, come quella che punisce la bestemmia. Diciamolo: l’impropero verbale verso l’Altissimo, chiamiamolo così, è, purtroppo, comunissimo in campo. Dunque, o si applica rigidamente la norma, espellendo chiunque, per dare un messaggio, oppure, per buonsenso, si soprassiede. Non ha senso applicarla ogni tanto, con criteri  discutibilissimi.

Su falli, rigori e cartellini non possiamo discutere qui: il campo è troppo ampio. L’imperativo è: un peso, una misura. Per tutti. E’ segno di preparazione e di coerenza. Doti, specie la seconda, che vanno un po’ smarrendosi per i campi di calcio. Poi: la posizione. L’azione va seguita da vicino, non si può fischiare, come spesso accade, da venti, addirittura trenta metri di distanza. Il cruccio sul quale ragionare, però, è il rapporto che viene instaurato in campo. Sarà pur vero che tra i giocatori compaiono dei Cerbero allucinanti, cagnacci aggressivi, smodati, non proprio seguaci del galateo, pronti a far di tutto per rendere impossibile il compito del direttore. Però l’arbitro dovrebbe saperlo: dirige una partita di calcio, non una visita in centro città.

L’arbitro dovrebbe, a nostro avviso, assumersi la responsabilità di ogni decisione e accingersi, ogni qual volta richiesto, a spiegare, a motivare le scelte. Non piacciono? Pazienza. Ma spiegarsi è buon costume, specie per chi, ripetiamo, è garante del gioco del calcio. Un atteggiamento dispotico, altezzoso, rovina le partite e il clima di festa, di sana rivalità che dovrebbe vestire le domeniche nel pallone. Una buona direzione di gara rende migliore un calcio dilettantistico per sua natura imperfetto, come i suoi cultori.

Perciò, concludiamo. Riproviamoci. Si elimini Cerbero tra i giocatori, ma anche Ponzio Pilato tra i direttori. Buon campionato a tutti.