Est modus in rebus? Difficile dirlo, noi ci proviamo. Scopriamolo insieme

Est modus in rebus? Difficile dirlo, noi ci proviamo. Scopriamolo insieme

by 19 Marzo 2013

Est modus in rebus? C’è una misura, un criterio di valutazione, un barlume di buonsenso, nell’universo pedatorio? Difficile dirlo. L’impressione però, è che manchi qualcosa. Forse anche di più. Qualcuno ha perso la bussola, e tanti la stanno lasciando per strada. Niente di grave, o di clamoroso, per carità. Però le sfumature negative cominciano a moltiplicarsi, a diventare fin troppo nitide. Che fare? Non spetta a noi un simile giudizio. Al massimo possiamo fornire una riflessione. Magari anche un po’ simpatica, condita d’ironia. Non sempre la critica fa rima con rabbia e indignazione. Noi ci proviamo: solleviamo alcune questioni, smascheriamo le note dolenti, gli elementi superflui, le ingerenze extra-calcistiche che bene non fanno. Proviamo a (s)ragionare sui nostri vizi e sulle nostre virtù, sugli usi e gli abusi, sui costumi e i malcostumi del calcio dilettante. Passando per il calcio giocato, le dirigenze, le consuetudini, le abitudini sbagliate, il rapporto con gli arbitri, il linguaggio. Quant’è lo scarto tra l’utile e l’inutile? Forse sono solo due lettere, se ci impegnassimo. Altrimenti molto, ma molto di più: scopriamolo insieme.

Partiamo con una considerazione di carattere generale: cosa significa modernità? O meglio, cos’è la modernità applicata al calcio? L’argomento meriterebbe ben altre disquisizioni, ma un piccolo appunto ce lo permettiamo. Tanti addetti ai lavori non hanno la dimensione della realtà dilettantistica. Affermarlo è brutale, antipatico. Ma terribilmente vero. La situazione è la seguente: troppi personaggi inopportuni passeggiano altezzosi per i campi di calcio, discettando di tattica, tecnica, psicologia dello sport. Il loro verbo è un continuo sproloquio verso un futuro fantasmagorico, fatto di idee miste a rimpianti, di proposte metafisiche, improponibili. Soprattutto nelle categorie inferiori: ci sono i maniaci della lavagnetta e i proseliti di Coverciano, gli affabulatori e i cultori dell’ “italiese”, un agghiacciante connubio linguistico tra italiano e inglese. Vorrebbero un mondo a loro immagine somiglianza. Impongono regole, codici etici, dettami tattici incomprensibili a giocatori che arrivano al campo stremati da ore e ore di lavoro. Infilati gli scarpini, vorrebbero divertirsi. Invece no, il santone di turno deve spiegare diagonali, piramidi, triangoli. I giocatori ascoltano attoniti, e qualcuno mormora frasi proibite. La domanda è: perchè? Non c’è niente di male ad avere due ferri da stiro al posto dei piedi. Non tutti diventano Maradona. Manca, appunto, la misura, il buonsenso. C’è chi esagera col pressapochismo, e chi arriva al campo convinto di allenare dei marziani. Non è cattiveria: è la verità. Girate per i campi della provincia, e davanti a voi troverete il significato di queste righe.

Nei settori giovanili è ancora peggio. Allenatori memori di un passato mai esistito torchiano impavidi adolescenti in lunghi, interminabili giri di campo. Mezzore passate a correre, rincorrendo il nulla. Si vedono autentici disastri nella preparazione atletica dei più piccoli, sotto tutti i punti di vista. Per non parlare della coordinazione, della tecnica individuale, della tattica. O non c’è nulla o c’è troppo. Una sana via di mezzo, mai. E’ grave: poi è normale che i ragazzi si stufino. Ci vuole gradualità: il calcio prima è un momento di condivisione, un’occasione per stare insieme. E’ un pretesto per coltivare una vita sociale, prima che un’attività sportiva. Paletti e conetti vengono dopo, molto dopo. Se un ragazzo impara a rispettare se stesso e gli altri, imparerà anche a fare un dribbling, un lancio, una diagonale coi tempi giusti. Ottenere tutto e subito è impossibile. C’è un ossimoro, proferito da Romano Mattè in una conferenza, che parla di “gioiosa fatica”. Ecco, in quelle due parole c’è il segreto del calcio. La gioiosa fatica è tutto: sudore, impegno, voglia di divertirsi rispettando le regole, buonsenso. Fateci un pensiero, non è mai troppo tardi.

Passiamo ad argomenti meno importanti, ma più inclini all’ironia. Qualcuno se la ricorda, l’epica figura dell’accompagnatore? Personaggi mitologici, nerboruti, col sorriso e la battuta sempre pronta. Fondamentali nei pre-partita, nei viaggi in trasferta, nella dura vita dei panchinari. Ecco, non esistono più. O meglio, sono in via d’estinzione. Oggi li chiamano team manager. Già il nome inglese è terrificante. Cosa c’è di manageriale nel riempire le borracce? O nello scherzare coi panchinari? Cos’è questa voglia d’importanza, di titoli che a nulla servono? Il malcostume è italianissimo: un italiano su quattro è presidente di qualcosa. Ha un titolo, una qualifica, magari dal nome anglofono. Il suo valore è impressionista: nessuno finora è riuscito a coglierlo. E’ questo il cambiamento che serve? Per carità, nelle categorie più alte, le dirigenze hanno più compiti, necessità di ruoli ben definiti. Un po’ di organizzazione in più utile, ma il copia-incolla dal professionismo è improponibile: i due mondi sono paralleli, è una verità scientifica. L’auspicio è che si faccia qualche passo indietro, per farne qualcuno in avanti.

Viriamo su una tematica scottante, oggetto di eterne diatribe. Facciamo però una premessa: nessuna critica eccessiva. Affronteremo la questione con leggerezza: quale? Il rapporto con gli arbitri. Serve un’inversione di tendenza, siamo ai minimi storici. Tra giocatori, allenatori, dirigenti da una parte, e arbitri dall’altra, c’è un clima pauroso. I primi si aizzano ad ogni fischio, i secondi rispondono con inspiegabili manie di protagonismo. Si assiste a scene grottesche: insulti reciproci, decisioni imponderabili, giocatori che non calciano rigori per presunto fair-play. Il risultato, è una lista interminabile di partite falsate. Anche in questo caso, affermarlo è brutale ed antipatico. Ma fate un giro tra gli addetti ai lavori, sarà dura per chiunque trovare qualcuno che ammetta il contrario. Proviamo a migliorare negli ultimi due mesi, un tentativo è possibile: meno attori tra i calciatori, meno despoti tra i fischietti. Poi lasciamo che sia il campo a parlare.

Altra questione: i rimborsi. Non ci dilungheremo in arringhe. Ma la questione è: sono rimborsi o stipendi? Con che coraggio si paga un calciatore dilettante per due ore d’allenamento tre volte la settimana, tanto quanto percepisce un operaio che si spacca la schiena otto ore al giorno? La colpa non è di chi riceve e poi, fisiologicamente, pretende. La colpa è di chi cede alle richieste, di chi allunga la paga. Non giudichiamo nessuno: ognuno è libero di agire come crede, nel rispetto delle regole. Se esiste ancora qualcuno che può investire nel calcio, buon per lui. Se il sistema collassa però, non facciamoci troppe domande. E’ tempo perso: le cause sarebbero sotto gli occhi di tutti. Il dilettantismo ha fatto il passo più lungo della gamba: è innegabile. Però il tempo è galantuomo: tornare indietro è possibile. Speriamo che qualcuno se ne accorga.

Bene, per questo pezzo abbiamo finito. Lasciamo a voi il potere di giudicare il peso specifico di queste righe, di commentare, di proporre suggerimenti. La rubrica continuerà con ulteriori articoli, proveremo ad affrontare altre questioni, ad aprirci ad eventuali richieste. Intanto vi lasciamo con una domanda, posta ad inizio testo: quant’è per voi, la distanza tra l’inutile e l’utile? Nel rispondere, abbiate buonsenso e buoncuore. D’accordo? Alla prossima!